#1 - Aborto farmacologico, siamo solo agli inizi
E poi una storia dalla Cina rurale, medici che prescrivono gite al museo, il mito della cannabis prima di dormire. E una playlist 🫶
In questo primo numero parleremo di aborto farmacologico negli Stati Uniti e in Italia, di quanti italiani rinunciano alle cure anche per motivi economici, di salute mentale in Cina, di prescrivere musei e altro ancora. Buona lettura!
Pillola abortiva negli Stati Uniti: qual è il punto?
Un giudice può arrivare a sospendere l’autorizzazione all’uso di un farmaco, concessa 23 anni fa dall’autorità competente e da sempre considerato sicuro, con una decisione fortemente politicizzata? È una delle domande centrali attorno alle quali ruota l’intricata vicenda politica e giudiziaria che durante l’ultimo mese negli Stati Uniti ha messo in primo piano il mifepristone, la prima delle due pillole necessarie per interrompere una gravidanza con metodo farmacologico che viene utilizzata in più della metà dei casi di aborto negli USA.
Abbiamo un potere giudiziario fortemente polarizzato - come tutta la società americana - sul tema dell’aborto, donne che per interrompere una gravidanza devono farsi spedire le pillole via posta, e le case farmaceutiche che fanno quadrato attorno al farmaco. Ma abbiamo soprattutto un precedente pericoloso: se oggi l’FDA viene strattonata sul mifepristone, domani per quale farmaco o vaccino politicamente sensibile avverrà? Se questo modo di fare politica dovesse prendere il sopravvento, chi farà ricerca su farmaci utili ma che potrebbero essere messi al bando in vista di un appuntamento elettorale?
Intanto, sul mifepristone la battaglia giudiziaria e politica è solo agli inizi, la decisione del 21 aprile della Corte Suprema non entrava nel merito della vicenda.
Per saperne di più
🇮🇹 Wired Italia ha tradotto questo articolo dell’edizione americana, con fonti molto interessanti
🇺🇸 Questo articolo del New York Times analizza il ruolo dell’FDA in questa situazione, mentre per capire come l’importanza assunta dalla spedizione postale della pillola questo reportage è molto utile.
E da noi?
In Italia il mifepristone è meglio noto con il nome RU486: se ricordate bene, se ne è parlato tantissimo più di dieci anni fa, nel 2009, quando la pillola abortiva è stata autorizzata anche da noi, e (un po’ meno) nel 2020, quando una circolare del ministero della Salute ha previsto alcune estensioni al suo utilizzo. Soprattutto, ha ammesso la possibilità di eseguire la procedura senza ricovero obbligatorio in ospedale, possibilità che le Regioni non pare abbiano tutte colto tempestivamente, come scrive l’Istituto Superiore di Sanità.
Nonostante le disparità regionali – l’aborto farmacologico viene utilizzato nell’1,9% dei casi in Molise e in oltre il 50% in Piemonte, Liguria, Emilia-Romagna e Basilicata – nel nostro paese si fa ricorso sempre di più alle pillole per l’interruzione volontaria di gravidanza: nel 42% dei casi, secondo i dati dell’ultimo trimestre 2020 comunicati dal ministero.
Sul diritto all’aborto, anche in Italia, credo che torneremo presto.
Ma prima di allontanarci dai temi della salute delle donne e riproduttiva, segnalo per chi se lo fosse perso che nei nuovi Lea (i livelli essenziali di assistenza) sono state introdotte delle novità anche riguardo la PMA (procreazione medicalmente assistita). E che forse già questo mese, ma lo saprete già, la pillola anticoncezionale sarà gratuita per le donne che ne fanno uso (io risparmierò circa 250 euro all’anno 🥂). Ovviamente anche su questo la politica si è divisa.
Infine, momento autopromo 📣: sul numero di maggio di Marie Claire troverete un mio articolo su cosa accade quando un tabù come la menopausa diventa un segmento di mercato.
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Per chiudere con l’Italia, c’è un numero che vorrei condividere con voi.
Perché rinunciano alle cure? Per i motivi più disparati, dalla lunghezza disperata delle liste d’attesa alla mancanza di trasporti per raggiungere la struttura ospedaliera. In particolare, a me tormenta quel 3,2% di coloro che hanno dichiarato di averlo fatto per motivi economici.
Spostiamoci nella Cina rurale, dove una avviata clinica per la salute mentale è stata chiusa a meno di un anno dalla sua apertura, senza spiegazioni.
Il longform è della testata cinese in lingua inglese The Sixth Tone. La storia si svolge nella contea di Dong’e, provincia dello Shandong, una zona rurale dove l’accesso alle cure per la salute mentale è molto raro. Invece, l’illuminato direttore dell’ospedale locale aveva aperto un centro dove offrire cure psichiatriche moderne agli abitanti della zona. La clinica va bene, anzi benissimo: i pazienti arrivano e arriva anche l’attenzione positiva di parte della stampa nazionale. Allora perché dopo pochi mesi finisce tutto, i pazienti vengono abbandonati e il direttore è sostituito? Vi lascio alla lettura, anticipando solo questa citazione:
“Sebbene l’ospedale abbia ricevuto un plauso nazionale per l’apertura della clinica, ha anche velocemente affrontato la diffusa - e, a volte, feroce - opposizione nella comunità locale.
Alcuni erano preoccupati che la contea venisse associata ai disturbi mentali”.
Vado al museo, me l’ha ordinato il medico
Dal 2019 nel Regno Unito il servizio sanitario nazionale, l’NHS, ha introdotto le prescrizioni sociali per i cittadini che hanno malattie croniche, problemi di salute mentale, che sono soli o isolati o che hanno problemi sociali complessi che inficiano la loro salute, come la mancanza di una abitazione adeguata. Il loro medico di famiglia (ma non solo lui) può indirizzarli verso dei lavoratori del sistema sanitario chiamati “link workers” che propongono al paziente attività come uscite al museo, la frequentazione di un club del libro, o di un corso d’arte, oppure percorsi con i servizi di supporto sociale, per il diritto alla casa ad esempio.
L’ho scoperto grazie a questo articolo dell’Harvard Public Health. Nel pezzo ci si chiede soprattutto come applicarlo negli USA, vista la mancanza di un servizio sanitario nazionale paragonabile a quello britannico.
Indovinate invece chi ce l’ha? 🇮🇹
Il meglio è nemico del bene 😮💨 Ma è vero che la cannabis aiuta a dormire?
È uno dei miei motti preferiti, lo ripeto spesso. Ho deciso di chiamare così la sezione finale della newsletter, nella quale suggerisco buone letture sul benessere per chi come me è interessato all’argomento ma non ci si avvicina per l’enfasi che spesso lo accompagna.
Primo argomento di questa rubrica è l’uso dei prodotti a base di cannabis prima di andare a dormire. Un conto è l’esperienza personale, un altro è l’opinione dei ricercatori che si sono messi a studiare l’effetto sul sonno dei principi attivi, il THC e il CBD (in Italia è legale consumare prodotti che contengono solo una soglia bassissima di THC ). Il Washington Post racconta cosa si sa finora a rigor di scienza: il THC può promuovere il sonno ma a certe condizioni, per esempio il tipo di insonnia da trattare e quanto il soggetto è abituato a farne uso, perchè è più efficace per chi non ne fa un uso regolare. Sul CBD non pare esserci molta chiarezza finora. Resta un fatto, evidenziato dal giornale: la cannabis andrebbe considerata come qualsiasi altro prodotto per l’insonnia, che in genere funzionano su cicli brevi di utilizzo. E magari - ma questo lo aggiungo io - in presenza di un disturbo chiedere consiglio a uno specialista è sempre una buona idea. 😴
Questo numero della newsletter è stato scritto ascoltando Everything I wanted di Billie Eilish: non sono una vera fan, ma la canzone ha una bellezza cupa che mi aiuta a scrivere.
Su Spotify trovi la playlist di Stati di salute curata da me. Per ora ci sono pochi brani, ma prometto che crescerà.
Prima di andare via, grazie per aver letto il primo numero di questa newsletter. Spero davvero che vi sia piaciuta, e che vi iscriviate se non l’avete fatto già. L’ultimo ringraziamento va alla mia amica Rosa, che con un suo suggerimento ha dato l’impulso iniziale a questo progetto. Che il buon vino sia sempre con noi 🍷.